Secondo la Corte di Cassazione non è sufficiente la consegna di un semplice depliant per assolvere all'obbligo informativo dei rischi di un intervento agli occhi che il medico deve fornire al paziente prima di ottenere il suo consenso all’intervento. Il paziente deve, infatti, ricevere informazioni dettagliate e non generiche circa la natura, la portata, l'estensione, i rischi, i risultati e le conseguenze dell'intervento stesso.
A cura dell'Avv. Salvatore Russo
La vicenda processuale prende le mosse dalla determinazione di una donna che conveniva dinanzi al Tribunale di Messina un medico, un’Azienda Ospedaliera e un’Università per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti a seguito di un intervento chirurgico.
Orbene, l’attrice esponeva che, essendo affetta da miopia corretta con lenti, "attratta da notizie di completa guarigione da tale affezione", aveva effettuato, presso una struttura ospedaliera, un primo intervento di cheratomia radiale all'occhio sinistro e, successivamente (a distanza di pochi giorni) si era rivolta al medico convenuto che le aveva consigliato "un ritocco all'occhio sinistro e una cheratomia radiale anche all'occhio destro". La donna sosteneva che, dopo qualche iniziale beneficio, aveva avuto un peggioramento delle condizioni visive, "registrando varie complicanze" (comparsa di astigmatismo, tendenza alla ipermetropizzazione, fluttuazione diurna della visione, astenopia e insorgenza di cataratta), "con residuo visivo di 2/10 in occhio destro e di 3/10 in occhio sinistro" ed invalidità permanente del 60%.
La paziente lamentava di non essere stata adeguatamente informata dal medico sulla natura e i rischi dell'intervento a cui non si sarebbe sottoposta se fosse stata, invece, informata delle insorgenza delle intervenute complicanze.
Il Tribunale di primo grado aveva rigettato la domanda attrice. Avverso tale decisione, la donna proponeva impugnazione ma la Corte di Appello territoriale confermava la sentenza impugnata.
La Corte d'Appello, sulla scorta delle risultanze della c.t.u. medico-legale, escludeva, anzitutto, che la cataratta lamentata dalla ricorrente fosse causalmente correlata all'intervento chirurgico in questione ed evidenziava come i disturbi manifestati dalla donna, insorti due anni dopo l'intervento chirurgico, erano conseguenza diretta dell'intervento subito nelle due strutture ed erano “eventi possibili di rilevanza statistica in interventi eseguiti, come quello in esame, correttamente", avendo il medico effettuato una "corretta valutazione diagnostica preoperatoria seguita da tecnica chirurgica corretta..., in modo tale da escludere negligenza, imperizia e imprudenza da parte dell'operatore".
La stessa Corte d’Appello aveva escluso, inoltre, che la ricorrente non fosse stata adeguatamente informata dal medico sui disturbi poi manifestatisi, giacchè, nel corso della visita medica prima dell'intervento, lo stesso le consegnò un "depliant" (redatto dal medesimo oculista) nel quale si evidenziava: "rientrano nella normalità, e sono più o meno transitoria fastidi quali lacrimazione, fotofobia anche intensa, fluttuazioni visive, abbagliamento. Tutti questi problemi tendono a scomparire entro qualche settimana. Il vero limite dell'intervento è una relativa imprevedibilità che potrebbe comportare un residuo difetto visivo, seppure di molto inferiore a quello di partenza (...) non si tratta di un intervento di chirurgia estetica per cui se non si hanno problemi con l'uso degli occhiali o si tollerano bene le lenti a contatto non è il caso di sottoporsi ad operazione". Il giudice di secondo grado aveva dunque ritenuto che la consegna dell'opuscolo alla paziente integrasse "uno standard informativo adeguato", là dove non falsava il contenuto dell'informazione il riferimento alla transitorietà dei disturbi ed alla loro tendenza a scomparire, evidenziante comunque "i rischi che comporta l'intervento anche se ridotti", mentre il chiarimento circa la natura di intervento non di chirurgia estetica, con l'avvertenza di non sottoporsi all'operazione in caso di uso non problematico degli occhiali, rendeva "completa e dettagliata l'informazione".
La donna ricorreva, successivamente, per la cassazione di tale Sentenza. La ricorrente si doleva del fatto che il Giudice di secondo grado avrebbe omesso di valutare le prove acquisite o, comunque, le avrebbe valutate erroneamente, giacchè, in base ad esse, era emerso che tramite la consegna dell'opuscolo e verbalmente (come riferito da un teste), il medico aveva assicurato alla donna che avrebbe risolto "i suoi problemi visivi" e che l'intervento non avrebbe provocato complicanze alla paziente fatta eccezione dei fastidi indicati nell'opuscolo stesso, peraltro solo transitori, mentre aveva taciuto sulla "regressione dell'effetto correttivo inizialmente ottenuto". Sicchè, se la paziente avesse ricevuto "la esatta informazione che le complicanze ed i postumi fossero stati permanenti e/o che avesse subito una regressione della vista, di certo non si sarebbe sottoposta all'intervento di cheratomia radiale". La Corte di Appello aveva, pertanto, errato a ritenere la liceità dell'intervento eseguito correttamente dal medico, in quanto ciò non avrebbe rilievo alcuno "ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato", che sussiste per il solo fatto del deficit di informazione.
In secondo luogo, la donna sosteneva che la Corte di Appello avrebbe errato a non ritenere il medico responsabile per la violazione della buona fede nella formazione del contratto, inducendo la stessa paziente "ad esprimere un consenso assolutamente non consapevole e disinformato", con conseguente "lesione della situazione giuridica della paziente inerente alla salute ed all'integrità fisica", da risarcirsi indipendentemente dall'esecuzione corretta dell'intervento.
I giudici della Suprema Corte hanno considerato i profili di censura sollevati dalla paziente assolutamente pertinenti e rilevanti rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata perché attinenti all'ambito della prestazione del consenso informato alla prestazione medica ed ai caratteri che esso deve assumere per essere tale, laddove le ulteriori asserite violazioni di legge si palesano eccentriche rispetto allo sviluppo argomentativo che sorregge la decisione, la quale non pone affatto in discussione la necessità dell'obbligo informativo del medico nei confronti del paziente, adducendo, invece, che detto obbligo sia stato adeguatamente assolto dall'oculista che ha eseguito l'intervento chirurgico sulla persona della ricorrente.
La stessa Corte precisa che - alla luce di quanto emerso dalla stessa sentenza di appello - la "questione" del consenso informato della donna si correla esclusivamente alla domanda risarcitoria per lesione del diritto alla salute (ex art. 32 Cost.), quale unica pretesa che risulta esser stata azionata in giudizio e che rimane, quindi, ben distinta dalla domanda risarcitoria che postula la lesione del diritto fondamentale all'autodeterminazione a seguito della mancata informazione da parte del sanitario (cfr. Cass., 9 febbraio 2010, n. 2847; Cass., 12 giugno 2015, n. 12205). Distinzione, questa, che assume uno specifico rilievo effettuale, giacchè soltanto in riferimento alla pretesa di risarcimento del danno alla salute derivato da atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte si impone, ove sia mancata l'adeguata informazione del paziente sui possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, la verifica circa la rilevanza causale dell'inadempimento dell'obbligo informativo rispetto al predetto danno, gravando sullo stesso paziente la prova, anche presuntiva, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento (Cass. n. 2947 del 2010). Invero, nello stesso ricorso la paziente ribadisce di non aver potuto esprimere un consenso consapevole e informato, patendo di conseguenza la "lesione della situazione giuridica della paziente inerente alla salute ed all'integrità fisica", nè, in ogni caso, da contezza di dove e quando sarebbe stata proposta nel giudizio di merito la (eventuale) pretesa risarcitoria per lesione del diritto all'autodeterminazione.
Quanto alle modalità ed ai caratteri del consenso alla prestazione medica, i Giudici di Cassazione ricordano che esso, anzitutto, deve essere personale (salvo i casi di incapacità di intendere e volere del paziente), specifico e esplicito, nonchè reale ed effettivo, non essendo consentito il consenso presunto. Infine, il consenso deve essere pienamente consapevole e completo, ossia deve essere "informato", dovendo basarsi su informazioni dettagliate fornite dal medico, ciò implicando la piena conoscenza della natura dell'intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative. A tal riguardo, i Giudici puntualizzato che non adempie all'obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato il medico il quale ritenga di sottoporre al paziente, perchè lo sottoscriva, un modulo del tutto generico, da cui non sia possibile desumere con certezza che il paziente medesimo abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni (Cass., 8 ottobre 2008, n. 24791).
Fatte tali premesse, i giudici della Corte evidenziano come la motivazione della sentenza impugnata devia dall'alveo dei richiamati principi, avendo ritenuto sussistente la completezza dell'informazione in ordine all'intervento chirurgico di cheratosi radiale, anche per ciò che atteneva alle relative conseguenze pregiudizievoli, in evidente contraddizione, però, con l'effettiva portata del contenuto dell'opuscolo consegnato alla paziente, da porsi in correlazione con gli esiti dell'accertamento medico d'ufficio - che la stessa Corte territoriale fa propri, come premessa dell'ulteriore sviluppo argomentativo, a fondamento della decisione - là dove detto accertamento era nel senso che anche la complicanza della "regressione dell'effetto correttivo inizialmente ottenuto" era da ascriversi tra gli "eventi possibili di rilevanza statistica in interventi eseguiti, come quello in esame, correttamente". La Corte d'Appello, infatti, aveva evidenziato che, attraverso la consegna da parte del medico oculista alla donna di un "depliant informativo, dallo stesso oculista redatto", la paziente fosse stata adeguatamente informata sulla portata e sui rischi dell'intervento di cheratomia radiale (poi eseguito del tutto correttamente dal sanitario) e, segnatamente, sulle complicanze successivamente insorte a carico della stessa paziente, mancando però di considerare quella della regressione del visus - quale conseguenza pregiudizievole di maggior rilievo occorsa alla donna -, che nel predetto depliant non veniva indicata, essendo evento diametralmente opposto quello di un possibile "residuo difetto visivo, seppure di molto inferiore a quello di partenza".
Rimane, infine, su un piano di una mera e inammissibile presuntio de presumpto, in quanto del tutto sfornita di oggettivo riscontro, la circostanza che la paziente, in quanto già sottopostasi ad analogo intervento chirurgico poche settimana prima, fosse stata adeguatamente informata su tutte le relative complicanze. In ogni caso, ove pure (in ipotesi) riscontrabile l'anzidetta circostanza, ciò non esimerebbe il medico che interviene successivamente ad acquisire il consapevole, completo ed effettivo consenso del paziente tramite una rinnovata informazione sulla prestazione medica che si va ad effettuare.
Alla luce di tali argomentazioni, i giudici della Suprema Corte cassavano la sentenza impugnata e rinviavano la causa alla Corte d'Appello territoriale, in diversa composizione, per procedere, in riferimento alla domanda risarcitoria per lesione del diritto alla salute, ad una nuova e preliminare delibazione in ordine alla sussistenza del consenso informato della paziente all'intervento di cheratomia radiale eseguito dal medico oculista.