Il Tribunale di Taranto ha condannato una struttura sanitaria a risarcire il danno patito da un minore per la degenerazione di un’appendicite acuta non tempestivamente diagnosticata. Il Giudice richiama esplicitamente il principio (più volte ribadito dalla Cassazione) secondo cui in tema di responsabilità medica ed in particolare del relativo nesso causale, in sede civile, la causalità va valutata secondo la regola della preponderanza dell’evidenza ovvero “del più probabile che non”: per ricollegare un evento lesivo ad un atto medico colposo occorre che sussista tra i due elementi un nesso causale di “rilevante probabilità”, nel senso che il comportamento commissivo/omissivo del sanitario o della struttura deve aver causato il danno lamentato dal paziente con un grado di efficienza causale così alto da rendere più che plausibile l’esclusione di altri fattori concomitanti o addirittura assorbenti.

A cura dell’Avv. Salvatore Russo

Con atto di citazione, i genitori esercenti la potestà genitoriale sul proprio figlio minore esponevano di aver accompagnato il figlio minore, a causa di forti dolori addominali, presso il Pronto Soccorso dell’azienda sanitaria convenuta e, dopo una consulenza pediatrica e chirurgica, il minore veniva subito dopo dimesso con prescrizione di un semplice antidolorifico. A distanza di qualche ora dalle menzionate dimissioni del paziente, aggravandosi la sintomatologia, il minore veniva nuovamente portato al Pronto Soccorso e, dopo esami ematologici ed una radiografia all’addome, veniva ricoverato presso il reparto di pediatria, ove veniva posto in osservazione per i 2 giorni successivi al ricovero stesso.

Le condizioni del minore tendevano, però, aggravarsi e la mattina del secondo giorno di osservazione veniva praticata un’ecotomografia dell’addome; tale esame diede comunque un esito negativo. Nel pomeriggio, finalmente, il minore veniva visitato da un chirurgo che subito dopo provvedeva adoperare d’urgenza il piccolo paziente, riscontrando “appendicite acuta gangrenosa, ascesso pelvico con peritonite acuta diffusa”.

È appena il caso di evidenziare come, secondo i genitori del minore, il grave e colposo ritardo diagnostico aveva comportato notevoli complicanze, con conseguente invalidità permanente e temporanea e, perciò, reclamavano il risarcimento di tutti i danni patiti in conseguenza dell’iniziale errore diagnostico dei sanitari.

In giudizio si costituiva l’azienda sanitaria ritenendo insussistente ogni errore diagnostico.

Il Giudice ha ritenuto la domanda attrice assolutamente fondata sostenendo che proprio “La Cassazione, in tema di responsabilità medica ed in particolare del relativo nesso di causalità, ha più volte ribadito il principio che in sede civile la causalità va valutata secondo la regola della preponderanza dell’evidenza ovvero “del più probabile che non” (Cassazione. S.U. nn. 576 e 581 dell’11.1.2008; Cass. 11.05.2009 n. 10741; Cass. 8.7.2010 n. 16123; Cass. 21.7.2011 n. 15993 e successive, tutte conformi); per ricollegare quindi un evento lesivo ad un atto medico colposo occorre che sussista tra i due elementi un nesso causale non in termini di certezza (“oltre ogni ragionevole dubbio”, come deve avvenire in sede penale) né di mera possibilità, ma di rilevante probabilità, nel senso che il comportamento commissivo o omissivo del singolo sanitario o della struttura deve aver causato il danno lamentato dal paziente con un grado di efficienza causale così alto da rendere più che plausibile l’esclusione di altri fattori concomitanti o addirittura assorbenti”.

L’organo giudicante per valutare la pretesa risarcitoria avanzata dagli attori ha fatto riferimento all’ampiamente motivata consulenza tecnica d’ufficio. Il CTU aveva infatti accertato e individuato l’iniziale errore diagnostico verificatosi nei giorni di ricovero del minore presso la struttura sanitaria ed il nesso causale tra lo stesso errore e l’aggravamento delle condizioni del paziente, con l’evoluzione gangrenosa dell’appendicite acuta non tempestivamente rilevata.

In particolare, lo stesso CTU, sulla base dell’esame clinico e della documentazione medica acquisita, aveva accertato come già durante il primo accesso al Pronto Soccorso l’elevato numero di globuli bianchi rendeva evidente un importante stato infettivo ma il minore veniva comunque rimandato a casa, con prescrizione di terapia analgesica. Il consulente, infatti, affermava esplicitamente come già dal primo accesso in Pronto Soccorso la diagnosi di appendicite era “possibile” e come nel pomeriggio dello stesso giorno la diagnosi doveva evolvere in “certa”, per la presenza di febbre e anoressia; ma, ancor di più, nella mattina successiva al ricovero del giovane una tempestiva ecografia addominale avrebbe dovuto permettere una sicura diagnosi di appendicite acuta, con eventuale indicazione di intervento chirurgico.

Il CTU concludeva il proprio referto asserendo che “sicuramente vi è stato un ritardo, da parte dei sanitari dell’ospedale (…omissis…) nella diagnosi di appendicite acuta al giovane (…omissis…). Il ritardo nella diagnosi ha portato alla trasformazione di un’appendicite acuta in un processo di “gangrena appendicolare con peritonite ed accesso pelvico”. Il consulente prosegue nelle conclusioni medico-legali sottolineando che: “se il piccolo (…omissis…) fosse stato operato 24 ore prima, l’appendicite probabilmente non sarebbe andata in gangrena”.

Il Giudice, nel condividere i riferiti orientamenti della Cassazione in tema di responsabilità medica nonché gli accertamenti medico-legali del CTU, accoglieva la domanda attrice e per l’effetto condannava la struttura sanitaria al risarcimento di tutti i danni patiti dal minore.