La Corte di Cassazione con la Sentenza n. 4540/2016 ha chiarito che non si impone, sempre e comunque, alla struttura sanitaria ed al medico strutturato (che abbia correttamente operato in base agli strumenti diagnostici a sua disposizione) di indirizzare il paziente ad un centro ecografico di più elevata specializzazione, ma soltanto ove le apparecchiature tecniche non siano adeguate allo scopo; ossia - nella specie - non fossero tali da fornire una risposta corretta e completa in ordine alla diagnosi morfologica del feto diversamente da altri strumenti ecografici presenti in strutture sanitarie diverse.

A cura dell’Avv. Salvatore Russo

 La vicenda giudiziaria prende le mosse dall’atto di citazione con il quale due coniugi convenivano in giudizio una struttura sanitaria e taluni medici in essa operanti, per sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni patiti in conseguenza di una (presunta) negligente ed imperita assistenza medica prestata all’attrice durante la sua gravidanza e della omessa informazione sull’esistenza di gravissime malformazioni fetali in capo al nascituro. Secondo gli attori, infatti, tali malformazioni venivano colpevolmente non rilevate nel corso degli accertamenti ecografici eseguiti alla 19° e alla 25° settimana di gestazione, ma venivano ravvisate soltanto alla 32° settimana, epoca in cui non era più consentito il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza.

Il Tribunale di primo grado, alla luce della espletata c.t.u. medico-legale, rigettava la domanda attorea.
Avverso tale decisione uno dei coniugi proponeva impugnazione, anch’essa rigettata dalla competente Corte di Appello.

Le doglianze dell’appellante erano tutte incentrate sulla genericità delle risposte dei consulenti al "quesito fondamentale relativo alla possibilità di diagnosticare malformazioni così gravi in tempo utile per l’esercizio del diritto all’interruzione di gravidanza".

Il giudice di secondo grado osservava, al riguardo, che la risposta negativa si fondava su due ordini di ragioni. La prima relativa ai "mezzi diagnostici utilizzabili all’epoca", che consentivano una diagnosi di anomalie fetali intorno alla 20° settimana "con una affidabilità assai limitata (12-21%), comunque non superiore al 18% per ecografie svolte prima della 24 settimana di gravidanza". La seconda relativa "al grado di rischio della specifica gravidanza in assenza di fattori specifici (età, rischio genetico, farmaci utilizzati ecc.), che avrebbe giustificato un approccio diagnostico di tipo ordinario (dovendosi in ipotesi di rischio elettivo consigliare esami in centri specializzati)".

La Corte d’Appello aveva ritenuto che i consulenti avessero, con metodo scientifico, chiarito il "perché nel singolo specifico caso la patologia non potesse essere diagnosticata in tempo utile", esaminando accuratamente le pubblicazioni scientifiche dell’epoca, "in relazione alla rilevabilità di anomalie scheletriche maggiori, per ecografie eseguite nel secondo trimestre di gravidanza ponendo a confronto non solo i periodi in cui gli studi sono stati effettuati, ma altresì il grado di sensibilità in relazione alla popolazione esaminata". Sicché, non essendo disponibili "le immagini ecografiche, ma solo i referti", la risposta ai quesiti "non poteva che essere fornita sulla base delle possibilità di rilevamento della patologia, in un’epoca gestazionale tale da consentire il diritto all’interruzione di gravidanza per grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna".

Il giudice del gravame proseguiva, poi, che, "a fronte di una ecografia in 19° settimana, con referto di corrispondenza dello sviluppo fetale all’epoca gestazionale" e non essendovi rischi specifici circa l’età, la trasmissibilità genetica e l’assunzione di farmaci, "non sussistevano indicazioni per l’avvio della gestante ad un centro specializzato al fine di approfondire, né per ripetere, a ridotta distanza di tempo, il medesimo esame ecografico". Del resto, nel periodo fra il 1986 ed il 1990, in base a studio condotto in Italia, la sensibilità ecografica era pari al 18%, per cui "in meno di un caso su cinque era possibile diagnosticare la patologia, anche nei centri specializzati all’epoca dei fatti"; sicché, sebbene la diagnosi fosse "astrattamente possibile", la stessa era da ritenersi "assai improbabile", con conseguente esclusione di "ogni colpa dei sanitari coinvolti per l’omessa diagnosi".

Nel caso di specie, inoltre secondo la Corte d’Appello non poteva condividersi il principio per cui il sanitario che avesse diagnosticato una normalità morfologica del feto, anche su base strumentale, era comunque obbligato ad informare il paziente della possibilità di ricorrere ad un centro più elevato di specializzazione, in vista dell’esercizio del diritto della gestante di interrompere la gravidanza. Ciò in quanto detto principio generale, da un lato, si risolverebbe "tout court nell’obbligo di ciascun ecografista (che è di per sé medico specialista) di rinviare sempre ad un centro maggiormente specializzato..., con la conseguenza dell’inutilità dei protocolli ordinari di pratica medica"; dall’altro, perché "appare del tutto arbitrario affermare che la difficoltà nella diagnosi dipendesse, quantomeno all’epoca, dalla mancata visione degli arti nella loro interezza e non dalla rudimentale tecnica dei macchinari in quel periodo utilizzabili".

Di qui, peraltro, l’esclusione della responsabilità anche del medico curante "per non avere - a fronte di un referto pienamente soddisfacente alla 19° settimana e di una gravidanza a basso rischio - invitato la paziente a rifare una ecografia, entro il limite di viabilità, in assenza di qualsivoglia rischio elettivo".

Per tutti questi motivi la Corte d’Appello rigettava il Ricorso.

Ricorreva il coniuge per la cassazione della sentenza, sulla base di tre motivi.

Il coniuge, dinnanzi alla Corte di Cassazione, deduceva che la Corte d’Appello avrebbe omesso di considerare la 'condotta esecutiva' dei medici e della struttura nell’adempimento dell’obbligazione sanitaria assunta, soffermandosi soltanto sui 'dati statistici, risultanti dagli studi in materia', mancando però di indagare se nel caso concreto il personale della struttura “avesse svolto con diligenza professionale la propria opera”; il coniuge contestava, altresì, come i convenuti non avessero fornito la prova dell’esatto adempimento dell’attività medica (con conseguente sussistenza della loro responsabilità).

Il coniuge si doleva, altresì, del fatto che il giudice di secondo grado avrebbe escluso che la struttura sanitaria ed i medici ivi operanti fossero obbligati ad informare la gestante della possibilità di più elevate percentuali di successo diagnostico ripetendo l’esame ecografico presso strutture più avanzate, in tal modo errando ad espungere dalla sfera del dovuto un atto di informazione che è diretto al soddisfacimento dell’interesse del paziente così come dedotto nel contratto, che era, nella specie, appunto quello alla “conoscenza dello stato patologico del feto al fine di potersi autodeterminare alla interruzione volontaria della gravidanza”.

Da ultimo, il coniuge contestava l’orientamento della Corte d’Appello nell’escludere un danno imputabile ai medici ed alla struttura sanitaria in riferimento alla mancata informazione sul presupposto che le percentuali (dal 12% al 21%) 'sarebbero rimaste le medesime anche rivolgendosi ad una struttura più avanzata'.

La Corte di Cassazione, III Sezione Civile, con la sentenza n. 4550/2016 rigettava il Ricorso del coniuge.

Nella motivazione, viene preliminarmente sottolineata la validità di un principio di diritto già affermato dalla stessa Corte (Cass., 13 luglio 2011, n. 15386); ossia quel principio secondo cui, in tema di responsabilità medica, il sanitario che formuli una diagnosi di normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali che non ne hanno consentito, senza sua colpa, la visualizzazione nella sua interezza, ha l’obbligo d’informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, in vista dell’esercizio del diritto della gestante di interrompere la gravidanza, ricorrendone i presupposti (precisandosi, poi, che al riguardo la prova, pur se incombente sulla parte attrice, lamentandosi la mancata informazione da parte del medico, non può che essere di natura presuntiva quanto al grave pericolo per la salute psichica della donna che costituisce la condizione richiesta dalla legge per l’interruzione di gravidanza).  Ma, la stessa Corte ricorda, però, che un tale principio “non impone tout court un obbligo per ciascun ecografista... di rinviare sempre ad un centro maggiormente specializzato”.

Infatti, secondo la Corte, in tema di controlli ecografici sul feto, ai fini della relativa diagnosi morfologica, l’obbligo gravante sulla struttura sanitaria e sullo stesso medico strutturato, che abbia concretamente operato la diagnosi, di informare la paziente, che ad essa si sia rivolta, di poter ricorrere a centri di più elevata specializzazione sorge, anzitutto, in ragione dell’esistenza di un presupposto inadempimento, addebitabile unicamente alla struttura sanitaria, di aver assunto la prestazione diagnostica pur non disponendo di attrezzature all’uopo adeguate, così da ingenerare nella paziente l’affidamento che il risultato diagnostico ottenuto (di normalità fetale) sia quello ragionevolmente conseguibile in modo definitivo. Si tratta di inadempimento legato a “deficit organizzativi” della struttura sanitaria, la quale, infatti, è obbligata, in base al contratto di spedalità, a mettere a disposizione non solo il personale sanitario, ma anche le necessarie attrezzature idonee ed efficienti, della cui inadeguatezza la stessa struttura, inadempiente ex art. 1218 cod. civ., risponde in modo esclusivo (cfr., Cass. sez. un., 1 luglio 2002, n. 9556; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1698), essendo, dunque, esonerato da siffatta specifica responsabilità il medico che, diligentemente e in modo perito secondo le leges artis, sia intervenuto sul paziente (Cass. 11 maggio 2009, n. 10743).

L’inadempimento (da parte della struttura sanitaria) della menzionata obbligazione genera l’ulteriore obbligo informativo, che si pone a protezione del paziente e che grava non solo sulla struttura sanitaria, ma, questa volta, anche sul medico operante, il quale, pure se esente da colpa professionale nella fase esecutiva del suo intervento, è comunque tenuto ad avvisare il paziente della inadeguatezza degli strumenti diagnostici, così da non determinare in esso l’insorgere di un incolpevole affidamento sulla sicura bontà dell’esame strumentale. Ed è proprio in tale prospettiva che questa Corte ha affermato doversi ravvisare la colpa del medico che ometta di attivarsi per il trasferimento di un paziente in una struttura ospedaliera più idonea ove in quella di ricovero non possa essere adeguatamente curato (Cass. 22 ottobre 2014, n. 22338). Dunque, l’obbligo protettivo di informazione nasce in uno con l’inadempimento, da parte della struttura sanitaria, dell’obbligo di adeguatezza organizzativa in rapporto all’assunzione della prestazione di spedalità in favore del paziente nonostante il deficit organizzativo.

Tutto quanto ciò premesso, la Corte prosegue nel suo ragionamento chiarendo che “il principio enunciato dalla decisione del 2011 non impone sempre e comunque alla struttura sanitaria ed al medico strutturato (che abbia correttamente operato in base agli strumenti diagnostici a sua disposizione) di indirizzare la paziente ad un centro ecografico di più elevata specializzazione, ma soltanto ove le apparecchiature tecniche non siano adeguate allo scopo; ossia - nella specie - non fossero tali da fornire una risposta corretta e completa in ordine alla diagnosi morfologica del feto diversamente da altri strumenti ecografici presenti in strutture sanitarie diverse”.

Da ciò, secondo la Corte, discenderebbe la corretta decisione del giudice di appello che ha escluso l’assenza dell’inadempimento (a carico di struttura sanitaria e medici) dell’obbligo di informare la paziente sulla presenza di altri centri specializzati e più idonei a rendere una diagnosi di morfologia fetale corretta e completa, giacché era “del tutto arbitrario affermare che la difficoltà nella diagnosi dipendesse, quantomeno all’epoca, dalla mancata visione degli arti nella loro interezza e non dalla rudimentale tecnica dei macchinari in quel periodo utilizzabili” (anno 1986), che, come accertato in base alla espletata c.t.u. collegiale, 'non consentivano che una scarsa sensibilità (inferiore al 20% in età gestazionale utile all’interruzione della gravidanza'.

Per la Suprema Corte, tale motivazione non solo sarebbe priva di errori giuridici, ma anche sufficiente ed adeguata, che dà contezza di come non potesse addebitarsi alla struttura sanitaria l’inadempimento all’obbligazione di assunzione della prestazione nei confronti della paziente, giacché non si verteva in ipotesi di inadeguatezza organizzativa della struttura sanitaria, bensì intrinseca limitatezza tecnica degli strumenti diagnostici dell’epoca, che, in Italia nell’anno 1986, assicuravano una percentuale di successo assai contenuta a pari al 18% (e in generale, comunque, in un range oscillante tra il 12-21%).